Il ricatto della Cina all’Italia (e l’invito di Xi a Meloni sulla via della Seta)

2023-01-06 14:38:48 By : Mr. Steven Lo

La Cina oggi è un Paese nelle mani di un uomo solo, che si è già dimostrato capace di epurazioni di decine di migliaia di alti funzionari a qualunque livello, se non era certo della loro assoluta sottomissione ideologica: dal partito, alla banca centrale, alle imprese di Stato. A differenza di Hu Jintao e prima di lui di Jang Zemin o Deng Xiaoping, Xi oggi più interessato all’ascesa geopolitica della Cina che alla sua crescita economica o alla sua integrazione nei mercati mondiali. Ossessionato dal controllo politico e personale al punto di privilegiare le imprese meno efficienti del settore pubblico rispetto a quelle, sempre più infiltrate dal partito, del settore privato. Negli ultimi due anni Xi ha aggredito e tarpato prima le imprese tecnologiche – a partire da Alibaba di Jack Ma – quindi i grandi gruppi dell’istruzione privata: nessuna istituzione pubblica o privata cinese oggi può svilupparsi fino a rappresentare un potere potenzialmente indipendente. Xi Jinping è disposto a pagare un prezzo elevato alla sua visione di stampo marxista-leninista: il tasso di crescita cinese quest’anno sarà il più basso da quattro decenni, più basso di quello dell’Italia. L’anno prossimo non promette molto meglio. Il settore realmente privato, il più efficiente, ormai rappresenta non più di un terzo delle imprese attive. L’industria immobiliare resta paralizzata in una crisi di debito che il governo non vuole o non sa risolvere. La brusca riapertura dopo i drastici lockdown contro il Covid, unita al rifiuto di stampo nazionalista di usare i più efficaci vaccini occidentali, potrebbe portare – secondo l’Economist – a 1,5 milioni di morti in Cina nei prossimi mesi.

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Questo Paese, guidato così, oggi ha dei conti aperti con l’Italia. Partirò dunque illustrando quelli che dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti, se solo facessimo attenzione. Passerò poi a raccontare quelli che non sono sotto gli occhi di tutti – specie in settori strategici come le banche e le telecomunicazioni – ma di cui è ormai impossibile dubitare quando si confrontano i resoconti che ne arrivano da Roma e da Bruxelles.

Prima i fatti pubblici, dunque. Noi tendiamo a rimuoverlo, ma poco meno di quattro anni fa l’Italia si è impegnata firmando con Pechino un “Memorandum of Understanding” di adesione del nostro Paese alla Via della Seta. Quello è il grande progetto di proiezione internazionale di Xi Jinping, accordo in apparenza solo commerciale e sulle infrastrutture con decine di Paesi in Asia, Africa e qualcuno – se possibile – anche in Europa. La firma dell’Italia arrivò ai tempi del governo Lega-M5S, quando l’autocrate cinese arrivò a Roma facendo trasportare nell’areo presidenziale persino il suo letto: l’uomo non accetta di accomodarsi in alcun altro giaciglio. Il Memorandum Italia-Cina non presenta particolari contenuti concreti, ma un simbolismo politico innegabile: potenzialmente, allinea un Paese firmatario all’interno della sfera d’influenza di Xi. Il Memorandum con l’Italia poi contiene una clausola di rinnovo automatico ogni quattro anni, se nessuno delle due parti chiedono l’interruzione dell’accordo. Poiché la cerimonia della firma si è tenuta tre anni e nove mesi fa, Meloni è di fronte a una scelta: tacere sulla Via della Seta, dunque proseguire nell’alleanza irritando gli alleati dell’Italia in America e in Europa; oppure far comunicare a Pechino tra poche settimane che l’Italia esce dall’accordo. Sarebbe uno schiaffo non da poco. Il quadro si complica poi perché al G20 in Indonesia il mese scorso – con un tempismo non casuale – Xi Jinping ha invitato Giorgia Meloni per una visita di Stato a Pechino proprio nei prossimi mesi.

Al leader cinese piace giocare al divide et impera con gli europei, che percepisce come deboli e vulnerabili. Li prende uno per uno e ne solletica la vanità, per controllarli meglio: uno degli obiettivi di Xi in questa fase è ottenere il rinvio dei dazi europei sui beni esteri prodotti inquinando molto in settori di grande interesse per l’export cinese: cemento, fertilizzanti, alluminio, ferro, acciaio. Il mese scorso Xi ha ricevuto il cancelliere tedesco Olaf Scholz, con il quale ha concluso l’acquisto di 148 Airbus e assicurato l’ingresso della compagnia di Stato cinese Cosco con il 25% in un terminale del porto di Amburgo. Questo mese Xi ha ricevuto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel senza la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che Pechino considera meno manovrabile. Il mese prossimo sarà il presidente francese Emmanuel Macron ad andare a Pechino, senz’altro anche lui nella speranza di vantaggiosi contratti. Poi dovrebbe toccare a Meloni: la visita della premier italiana rischia di arrivare in coincidenza con la scadenza dei primi quattro anni del Memorandum Roma-Pechino. Denunciare l’accordo prima di andare, rischia di far saltare la visita. Denunciarlo subito dopo, rischia di essere uno schiaffo istituzionale che i cinesi potrebbero far pagare alle imprese italiane nel Paese e agli esportatori italiani.

Perché qui entra in gioco la parte non pubblica di quello che, ad oggi, è il vero e proprio ricatto che i cinesi rivolgono all’Europa e in particolare all’Italia. Esso dimostra come Xi è pronto a muoversi pur di avvicinare i suoi obiettivi. Nei mesi scorsi emissari dell’Unione europea hanno incontrato più volte dignitari di Pechino sui problemi - sempre più seri - che incontrano le imprese europee nell’operare in Cina. Uno dei temi sollevati è la possibilità di far accedere le banche europee presenti nella Repubblica popolare a una finestra di prestiti in yuan della banca centrale di Pechino, a tassi d’interesse molto agevolati, purché i fondi siano investiti in progetti “verdi”: per esempio il finanziamento di imprese europee o locali in Cina per la produzione di tecnologie per l’energia pulita o la riduzione delle emissioni delle fabbriche. Sembra un dettaglio tecnico, ma non lo è. La banca centrale cinese offre potenzialmente liquidità pari centinaia di miliardi di euro per questo. Significa permettere alle banche e dunque alle imprese europee loro di entrare in questa filiera, fortissima in Cina. Oggi solo due banche europee presenti a Pechino hanno accesso alla finestra “verde” della banca centrale di Pechino, la tedesca Deutsche Bank e la francese Société Générale. Le altre no, incluse Intesa Sanpaolo e Unicredit (la quale però sta molto alleggerendo la propria presenza in Cina). Quando gli europei hanno chiesto l’accesso alla finestra “verde” anche per gli altri istituti, la risposa cinese è stata in linea con il carattere del suo leader: potranno avere questo diritto solo le banche dei Paesi che concederanno una licenza di 5G al colosso delle telecomunicazioni cinesi Huawei. Esattamente ciò che gli americani non vogliono, per una questione di sicurezza dell’alleanza atlantica dai rischi di cyber-spionaggio ad opera dei cinesi. La mossa del resto era palesemente diretta soprattutto all’Italia, considerata abbastanza debole da poterle rivolgere proposte estorsive. A quanto ho potuto capire essa è stata respinta. Ma dà un’idea chiara della superpotenza alla quale siamo legati da un Memorandum d’Intesa. E della natura di questa globalizzazione 2.0, dove comanda la geopolitica e non c’è più spazio per i vasi di coccio.